Anche se non credo che alcuno abbia mai ammesso pubblicamente di essere un suo fedele, è fuor di dubbio che il "dio denaro" abbia avuto in tutti i periodi della lunga storia dell’umanità molti seguaci, anche durante il cristianissimo Medio Evo e - a quel che sembra, come vedremo - persino al tempo delle crociate contro i miscredenti dell’Islam.
Affidiamoci ai fatti. Siamo nel 1202 e i crociati, al comando di Bonifacio marchese del Monferrato, sono a Venezia, in attesa di salpare verso l’oriente per riconquistare Gerusalemme e il Santo Sepolcro, che erano stati ripresi dai musulmani. Sono lì perché con i veneziani era stato sottoscritto un contratto che impegnava questi ultimi a fornire le navi per il trasporto in Terrasanta dell’armata crociata che comprendeva, fra cavalieri, scudieri e fanti, circa 35.000 uomini, più 4.500 cavalli e tutti gli approvvigionamenti. Il costo delle spese sostenute dai veneziani era stato quantificato in 85.000 marchi d’argento, che dovevano - secondo i patti - essere versati prima di partire. La flotta avrebbe dovuto salpare entro il mese di giugno, ma successero alcuni fatti per cui la partenza fu rinviata di giorno in giorno per tutta l’estate. Si erano infatti presentati a Venezia solo un terzo dei crociati che erano attesi per l'imbarco, per cui il loro capo Bonifacio I di Monferrato non era in grado di reperire la somma necessaria da versare prima di levare le ancore. I veneziani erano commercianti avveduti e non si fidavano molto dei comandanti crociati, i quali - essendo dei nobili - disprezzavano tutte le attività che non avessero a che fare col maneggio delle armi, l’unica degna del loro lignaggio (e in seguito vedremo che uso onorevole faranno delle loro armi...).
Le cose si stavano trascinando per le lunghe: i crociati non riuscivano a trovare i 34.000 marchi che mancavano per raggiungere la cifra pattuita. e fra non molto sarebbe arrivato l’inverno, per cui non sarebbe stato più possibile prendere il mare. Per dirla tutta si trovavano nella situazione poco dignitosa, per gente del loro lignaggio, di chi vorrebbe partire, ma non ha i soldi per pagarsi il biglietto. Un vero disastro. Di colpo però a qualcuno dei veneziani viene un’idea geniale, che mette fine allo stallo e sblocca la situazione.
Apriamo una parentesi. Venezia e Zara erano in guerra; gli zaratini si erano ribellati al dominio veneziano e stavano facendo di tutto per essere accolti nel regno d’Ungheria, che - ironia della sorte - era anche l’unico in Europa che aderiva alla crociata promossa dal papa Innocenzo III. La proposta "geniale" che fanno i veneti ai crociati è, in soldoni, la seguente: “Va bene. Noi rinunciamo a riscuotere subito il credito che vantiamo nei vostri confronti e salpiamo ugualmente, ma prima di dirigerci verso l’Egitto (pensavano che partendo da lì l’attacco avrebbe colto di sorpresa i musulmani) passiamo per Zara, dove voi - per ricambiare il favore - ci darete una mano a risolvere una questione che abbiamo in sospeso con quella città. Ci state?
Immagino che questo possa esser stato più o meno il senso del discorso e mi posso immaginare anche l’espressione soddisfatta dei capi crociati, che avranno magari anche detto, o certamente pensato: "Finalmente si comincia a menar le mani!" Naturalmente posso anche sbagliarmi , magari per aver visto troppi film di bassa lega, ma certo, continuando con la metafora cinematografica, il comportamento dei veneziani, con in testa Enrico Dandolo, fa pensare proprio a una scena di una pellicola mediocre in cui la parte principale è affidata a un ultra novantenne, per giunta quasi cieco, che esibisce muscoli - evidentemente non suoi, ma del suo socio in affari (i crociati) - per intimidire e ridurre a miti consigli gli avversari. No, non sembra neanche questo un gran film, e il risultato sarà infatti disastroso prima per Zara e poi per Bisanzio.
Nel caso di Trieste e Muggia - prime tappe della navigazione - il copione sembra funzionare e il semplice apparire all'orizzonte dell’imponente flotta basta ad indurre le due città a prestare giuramento di fedeltà a Venezia. Con Zara invece il discorso è diverso, forse perché sperava in un intervento a suo favore da parte del papa Innocenzo III, che aveva indetto la crociata perché venissero riconquistati Gerusalemme e il Santo Sepolcro e non perché fossero attaccate città cristiane.
Ma fu del tutto inutile che Zara tappezzasse le sue mura con i simboli della croce, per segnalare che non era Gerusalemme, ma una città cristiana. Furono inutili anche le minacce prima e l’arrivo delle scomuniche papali poi. Quella dei crociati verrà poi ritirata, mentre quella dei veneziani rimarrà, senza impedire tuttavia che sia gli uni che gli altri commettessero poi a Bisanzio le atrocità che sappiamo. È il "dio del denaro"che prevale ancora una una volta su quello dei Vangeli, dirà qualcuno. Sì, succede quasi sempre così, al tempo delle crociate come al giorno d’oggi. Ciò non toglie tuttavia che ci sia sempre qualcuno - magari un vecchio miscredente come me - che ci rimane male ogni volta che accade.
Ma torniamo ai fatti. Zara dapprima annuncia la resa, poi cambia idea e si appresta alla difesa. I crociati scaricano dalle navi le macchine da assedio che avrebbero dovuto servire per le mura di Gerusalemme e dopo pochi giorni Zara si arrende. I cronisti veneziani del tempo tacciono del tutto su quel che accadde, e lo stesso faranno in occasione del sacco di Costantinopoli. Non si sa se ci siano state violenze contro la popolazione. Si sa solo che fugge e si rifugia nelle città vicine. I vincitori saccheggiano e depredano come si faceva di solito a quei tempi, nonostante che la croce, che gli uni portano cucita sulle tuniche, sia uguale a quella che gli altri hanno dipinto sui drappi che pendono dalle mura. Sembra certo tuttavia che una parte dei crociati (un migliaio circa) abbia preferito abbandonare la compagnia e non abbia voluto condividere la grande vittoria, partendo per conto suo verso la Terrasanta. Nella suddivisione del bottino pare che ci siano state violente liti fra veneziani e crociati e che lo stesso accadde per l’assegnazione degli alloggi in cui svernare, visto che era già novembre ed in quella stagione non si poteva navigare.
Si è in attesa dell’arrivo di Alessio, figlio dell’imperatore di Bisanzio detronizzato Isacco II, che già si era incontrato con il capo della crociata Bonifacio I di Monferrato nel 1201, in occasione delle festività natalizie alla corte del re Filippo di Svevia. La moglie di quest'ultimo era sorella del giovane principe Alessio, il quale chiedeva ai crociati essere scortato fino a Costantinopoli, dove si diceva certo che al suo arrivo sarebbe stato acclamato da una folla festante, che avrebbe rimesso sul trono il padre Isacco II , destituito e imprigionato dallo zio usurpatore, salito al trono col nome di Alessio III. In cambio dell’aiuto avrebbe provveduto a saldare il debito dei crociati con Venezia, avrebbe aggiunto 10.000 uomini alla spedizione e garantito a sue spese la presenza in Terrasanta di un contingente stabile di 500 cavalieri. Assicurava inoltre che una volta sul trono si sarebbe adoperato per il ricongiungimento della Chiesa ortodossa con quella di Roma. Niceta Coniate, storico e scrittore di Bisanzio, nonché eminente uomo politico del tempo, aveva definito Alessio "un giovane scervellato" e i suoi propositi "folli promesse".
La proposta del principe Alessio venne presentata a un'assemblea a cui parteciparono tutti i componenti della Crociata, sia laici che ecclesiastici. Sostenuta principalmente da Bonifacio di Monferrato e da Enrico Dandolo, fu accettata a maggioranza e siglata anche dai delegati di Filippo di Svevia. Una minoranza dei crociati, contrari alla proposta, dichiararono di avere indossato la tunica con la croce per combattere gli infedeli e non dei cristiani, votarono contro (si parla di circa un migliaio) e partirono da soli alla volta della Siria.
Passa l’inverno e nella primavera del 1203 si è pronti per salpare. I crociati si dirigono verso il porto, dove si accampano, mentre i veneziani provvedono con sistematicità alla distruzione della città. Della Zara descritta dalle cronache e raffigurata nelle immagini del tempo come una splendida città non rimarrà in piedi nemmeno una casa.
Nonostante qualcuno fra gli storici abbia motivato con l’aver dato credito alle avventate promesse del giovane principe bizantino la decisione di dare l’assalto alla cristianissima Costantinopoli anziché a Gerusalemme, in mano agli infedeli, questa ipotesi appare a me poco probabile, e cerco di spiegarne le ragioni. Bonifacio, allora poco più che cinquantenne, era nel pieno della sua maturità e quindi delle sue facoltà intellettive. Per quanto riguarda invece Enrico Dandolo il discorso è più complesso. Era stato eletto a ottantacinque anni, quando da tempo era quasi cieco. Quelli che l’avevano scelto però lo sapevano bene ed è molto probabile che abbiano optato per la scelta di un doge "di passaggio", cosa del resto accaduta varie volte nella storia di Venezia. Vale anche la pena di ricordare che con la sua promissio avvenuta, come era d'uso, dopo l’elezione , il Dandolo si impegnava a limitare notevolmente il suo potere personale, facendo in particolare solenne giuramento (perché a questo equivaleva la promissio dei dogi) che tutte le sue scelte sarebbero state ispirate ai principi dell’onore e dell’interesse della patria. Scendo in questi particolari perché ritengo importante capire il vero motivo che ha spinto il doge a non tenere in nessun conto uno di quei principi, quello dell'onore di Venezia, cui aveva così solennemente giurato di attenersi. Senza il consenso di Dandolo la crociata non avrebbe mai potuto essere dirottata verso una meta diversa da quella stabilita, tanto più che era il doge a comandare la flotta e che le navi erano veneziane. Tornando alla promissio, egli avrà senz'altro tenuto conto dell’interesse di Venezia nel prendere le sue decisioni (vista l’entità del grande bottino e i guadagni territoriali), ma certo non dell’onore. Teniamo presente che nel Medioevo tener fede alla parola data non era un "optional" come al giorno d’oggi, ma un punto d’onore imprescindibile. I crociati erano nella maggior parte dei cavalieri (nel senso che avevano ricevuto un’investitura) per cui l’onore era messo - almeno formalmente - sopra ogni altra cosa. Bisogna inoltre tener conto della stretta connessione che esisteva allora fra religione e cavalleria, per cui disubbidire ad un ordine del papa non era cosa di poco conto. Essi avevano aderito alla crociata in maniera individuale, e col loro comportamento mettevano in gioco il loro onore personale. Per Venezia invece era differente, in quanto - avendo aderito alla crociata come stato - ad essere in ballo era l’onore di Venezia e quindi di tutti i veneziani, dal doge al patrizio e da questi al pescivendolo, senza alcuna esclusione.
Sui motivi che furono alla base di questa importante e grave decisione, si è acceso, e tuttora permane, un grande dibattito fra gli storici, poiché è difficile trarre delle conclusioni definitive in mancanza, come siamo, di fonti veneziane, del tutto assenti (anche se il silenzio a volte la può dire lunga...) Certo è che la presa di Costantinopoli segnò una svolta nella storia di Venezia ed anche dell’intero Medioevo, ma significò pure la condanna a morte per una moltitudine di persone e la rovina per una città, che era unanimemente considerata come la più grande, importante , bella e ricca del mondo allora conosciuto. Poiché tutti hanno detto la loro, esprimendo giudizi contrastanti e spesso opposti, mi travesto per pochi minuti da storico e dico anch’io la mia. Per farlo mi permetto addirittura di far ricorso alle recenti parole dell’attuale papa Francesco, il quale, citando un vecchio proverbio argentino, ha detto che spesso il diavolo entra dalle tasche. In quei giorni stavo documentandomi sulla IV crociata, per scrivere queste note, e ho provato a sostituire alla parola tasche quella di scarselle (una specie di borselli appesi alla cintura degli uomini e usate allora per riporvi le monete) e mi sono accorto che il papa - anche se non credo nella sua infallibilità - poteva anche aver ragione, nel senso che solo la presenza del demone dell’avidità entrato da qualche parte (dalla scarsella appunto) nel corpo e nella mente dei crociati e dei veneziani possono fornire una qualche spiegazione a quei fatti terribili accaduti nei tre giorni in cui i "capi", Bonifacio e il vecchio doge Dandolo in primis, lo hanno permesso.
A sentire Villehardouin, testimone crociato, mai si era visto, dalla creazione del mondo, un tale bottino ammassato in una sola città.
Dato che siamo in tema di denaro, facciamo un po’ i conti in "scarsella" ai vincitori: Venezia aveva presentato un conto di 85.000 marche d’argento per le spese di costruzione della flotta e per i rifornimenti della spedizione, di cui 51.000 già incassate e 34.000 ancora da avere. Il frutto del sacco di Costantinopoli aveva fruttato un enorme bottino, del valore stimato di circa 400.000 marche, delle i quali il doge Dandolo ne aveva già intascate 50.000, come diritto di prima scelta, per via del debito che ancora vantava nei confronti dei crociati (Donald M. Nicol, Storia di Venezia - 1995). Le restanti 350.000 sarebbero state così suddivise, in base al trattato di spartizione già concordato: tre ottavi per ciascuno, vale a dire 131.250 marche, a Venezia e ai crociati e i rimanenti due (cioè 87.800 marche) al futuro Impero Latino. Poi sarebbero stati spartiti anche i territori dell’impero, ma di questo parleremo più avanti. Se teniamo conto che di lì a poco Venezia acquisterà da Bonifacio (sì, sempre lui, non è un omonimo) l’intera isola di Creta spendendo la cifra di 1.000 marche d'argento, si capisce bene che stiamo parlando di cifre enormi per l’epoca. Se fossimo in un romanzo giallo e si trattasse di un delitto (ma in realtà i delitti furono migliaia) ci sarebbero già diversi indiziati, in quanto indubbiamente in possesso di un valido movente: l’enorme bottino.
Non possiamo tacere il fatto che i meravigliosi quattro cavalli in bronzo dorato, che oggi adornano in maniera superba la facciata della Basilica di San Marco, fecero anch'essi parte del bottino, anche se a dire il vero quelli che si vedono all’esterno non sono gli originali, ma solo delle copie. Quelli veri sono custoditi all’interno della basilica. Non nascondo però che - ogni volta che li vedo - la loro bellezza viene un po' offuscata dalle circostanze in cui furono trafugati dall'ippodromo di Bisanzio e soprattutto da quanto ho letto su quelle tre orribili giornate di saccheggi ed eccidi dell’aprile 1204. Non dimentichiamoci - fra l'altro - che anche Bonaparte trafugò i cavalli come bottino di guerra (che però non c'era mai stata), ma i i francesi furono costretti a restituirceli non molti anni più tardi, nel 1815. Apro anche qui una piccola parentesi. Non è difficile trovare su molti siti internet, ma anche su molti libri, violenti attacchi contro Napoleone e i francesi per averci rubato quell'opera d'arte. Giusto. Ma cosa dovrebbero dire di noi i greci per il capolavoro (forse di Lisippo) che abbiamo rubato loro nel 1204? Non dicono niente, che sappia io, perchè sono passati secoli ed è subentrata una specie di "usucapione" (possesso prolungato che si trasforma in diritto di proprietà). Forse è meglio che tacciamo anche noi, per decenza, visto che abbiamo fatto molto peggio di Napoleone con le opere d'arte greche. Il Tesoro di San Marco è pieno zeppo di preziosi trafugati nelle medesime circostanze e i greci per vedere queste opere d'arte devono fare più strada di quella che facciamo noi per andare ad ammirare la Gioconda di Leonardo al Louvre. Ci sono persone che conosco, che reclamano il ritorno in Italia del celeberrimo dipinto, come fosse anch'esso preda di guerra, ignorando che fu regolarmente acquistato nei primi del '500 dal re di Francia Francesco IV per 4000 scudi d'oro, una somma ingentissima per quei tempi, che corrispondeva più o meno a due anni dello stipendio di Leonardo e dei migliori artisti che lavoravano allora alla corte del monarca francese.
Ma torniamo indietro per raccontare i fatti come sono stati descritti dai tre principali testimoni del tempo: due crociati francesi, Roberto di Clari e Goffredo di Villehardouin, e un greco, il già citato storico Niceta Coniate. Gli assalti alle mura di Costantinopoli furono due: il primo nel luglio 1203, poco dopo l'arrivi flotta, e la seconda nell’aprile dell’anno dopo, quando fu chiaro che dai bizantini non avrebbero avuto niente di quanto era stato loro promesso. Alessio IV infatti, incoronato imperatore dopo la morte del padre Isacco II, era stato assassinato durante una rivolta, e il suo successore Alessio V non era certo intenzionato a mantenere le promesse del suo predecessore, considerati anche i pessimi rapporti che esistevano fra la popolazione di Costantinopoli e i crociati, visti - non a torto, in verità - come degli invasori. Fra veneziani e bizantini c’era inoltre una vera e propria inimicizia, che risaliva al lontano 1171, quando i veneti - mal tollerati per i privilegi commerciali di cui godevano e per una loro presunta alterigia - erano stati privati dei loro beni e cacciati da Costantinopoli. Uno che non aveva certo dimenticato quell'affronto era il doge Dandolo, che aveva a lungo risieduto a Bisanzio, anche in quel periodo, e che senz'altro provava sentimenti di rancore, mai sopiti, nei confronti dei bizantini.
Il 7 aprile c’è il primo attacco, ma i crociati incontrano una forte resistenza e sono costretti a ritirarsi. Il giorno 9 c’è il secondo tentativo di assalto alle mura e questa volta riescono a conquistare alcune torri, a forzare tre porte della città e a riversarsi all’interno anche con i cavalieri. Per Bisanzio è l’inizio della fine e i difensori cominciano a fuggire, imbarcandosi verso la vicina costa asiatica. La mattina del 13 aprile, mentre crociati e veneziani si stanno preparando per la battaglia finale, arriva una delegazione di preti ortodossi ad annunciare la resa e a consegnare le chiavi della città. Vengono ricevuti da Bonifacio, in qualità di capo della crociata, ma neanche la resa serve a risparmiare Costantinopoli e poco dopo i soldati vengono autorizzati al saccheggio.
Non è difficile immaginare la scena: veneziani e crociati si lanciano come cani feroci su una preda ormai indifesa. Si distrugge, si saccheggia, si stupra, si sevizia, si uccide nei modi più efferati. Niente di nuovo sotto il sole. Era quello che accadeva da secoli, quando ai soldati era concesso dai comandanti di mettere a sacco una città nemica. La novità consiste nel fatto che la città non è nemica e che i soldati avevano cucita sul petto la stessa croce che si poteva vedere effigiata in tutti gli edifici religiosi della città. La cosa strana consiste anche nel fatto che quei soldati in quel momento avrebbero dovuto essere in tutt’altro luogo, perché il capo di tutti i cristiani, vale a dire anche dei cittadini di Zara e di Bisanzio, aveva indetto una crociata contro gli infedeli che si erano ripresi il Santo Sepolcro. Con ciò non voglio certo dire che se ad essere massacrati fossero stati dei mussulmani si sarebbe trattato di un fatto meno orribile , solo sarebbe stata una cosa almeno comprensibile per i tempi di allora. Così invece il primo a rimanerne scandalizzato fu il papa Innocenzo III, per non dire dei cronisti crociati, che nel descrivere simili atrocità sembrano provarne vergogna. I greci, le vittime, bollano naturalmente con parole di fuoco il comportamento inumano dei crociati. Il già citato Niceta Coniate li definisce precursori dell'anticristo. I veneziani, come già sottolineato, tacciono, quasi che fra loro - che pur erano migliaia - non ci fosse presente nessuno capace di leggere e scrivere, o anche solo ricordare, visto che negli anni seguenti è continuato il silenzio su come si svolsero realmente i fatti.
Questo silenzio danneggia inevitabilmente gli storici di professione, abituati a basare le loro analisi sulle fonti, preferibilmente contemporanee ai fatti che si sono svolti, ma può incoraggiare uno come me - dilettante allo sbaraglio, con licenza di dire anche stupidate - a fare un’ipotesi strampalata e controcorrente, ma forse non del tutto assurda: e se fossero stati non gli avidi mercanti veneziani a trascinare gli ingenui crociati a Costantinopoli, ma fosse successo il contrario? Se fossero stati gli ancor più avidi di terre e di bottino cavalieri crociati ad approfittare della mancanza di lucidità di un vecchio in età più che avanzata (per non dire decrepita), trascinandolo in un’avventura che era destinata a sfuggirgli di mano? Ricordo che quando un doge partiva per una spedizione e si trovava molto lontano da Venezia, per forza di cose il Maggior Consiglio e le altre autorità del Comune veneziano non potevano comunicare con lui. Era solo, con alcuni consiglieri (fra cui due suoi nipoti nel caso in questione) e da solo doveva prendere le decisioni, anche le più importanti, nonostante la promissio che aveva fatta dopo l'elezione a doge fosse molto vincolante riguardo la sua autonomia operativa.
Questa idea strampalata di rovesciare le parti mi è venuta di notte, non in sogno come qualche malizioso burlone potrebbe pensare, ma mentre stavo leggendo una interessantissima biografia del doge Dandolo, scritta da Giorgio Cracco (Dizionario Biografico degli italiani Treccani - Volume 32- 1986). Secondo l’autore Dandolo nacque attorno al 1107, perciò all’epoca della caduta di Bisanzio la sua età avrebbe dovuto aggirarsi sui 97 anni circa. So benissimo che a quella età ci sono persone ancora lucidissime, più di quanto lo sia io che ne ho più di una ventina di meno, ma per arrivarci col cervello in piena forma, a quell'età veneranda, bisogna essere degli individui eccezionali, in possesso di qualità e doti non comuni. Ed è proprio su questo fatto - che cioè Enrico Dandolo fosse una persona eccezionale, dotata di qualità, specialmente psichiche, in grado di compensare gli indubbi effetti negativi della tardissima età - che nutro fortissimi dubbi. Essere un quasi centenario in condizioni di piena lucidità è difficile anche di questi tempi, con tutti i progressi che si sono fatti nella medicina e nell'alimentazione, figurarsi quasi un millennio fa.
Sembra che fino all’età di 65 anni (1172) si sia dedicato al commercio in vari luoghi, compresa Bisanzio, e che fino a quel momento non abbia lasciato alcuna traccia di sé, né compiuto atti degni di essere ricordati, e difatti nessuno ne fa menzione. Aveva solo fama di essere una persona saggia e prudente. Poi svolge qualche incarico pubblico, perlopiù ambasciate, ma scrive il citato Cracco: "Chi si è occupato del Dandolo in genere ha espresso stupore per il fatto che egli sia arrivato al dogado nel 1192, alla tardissima età di 85 anni, senza essersi in precedenza quasi mai segnalato per imprese memorabili e per onori".
Sì, c'è da rimaner stupiti e anche da chiedersi, come me lo chiedo io e come sembra farlo - certo in modo meno esplicito e provocatorio di quanto lo faccia io adesso - anche l’autore di questa accurata biografia: ma Dandolo è stato eletto malgrado non fosse in possesso delle qualità normalmente necessarie per essere un buon doge, o proprio perché queste qualità non le aveva affatto? Certo è che aveva tutte le caratteristiche che si richiedono a un doge "di transizione". Anzi ne era l’immagine pressoché perfetta, perché non scontentava nessuna delle famiglie importanti. A loro infatti potevano sembrare pregi e non difetti l’età troppo avanzata e la sua quasi totale cecità, documentata fin dal 1183, che gli impediva perfino di firmare i documenti. Quelle che normalmente vengono considerate carenze potrebbero aver paradossalmente giocato a suo favore nella elezione a doge avvenuta nel 1992, alla morte di Orio Mastropietro. Qualcuno infatti potrebbe aver pensato che, data l’età, non sarebbe durato a lungo e che - vista la promissio capestro sottoscritta dopo la elezione, che gli inibiva praticamente qualsiasi iniziativa autonoma - non sarebbe stato neppure in grado di combinare troppi malanni. Che fosse un doge che non godeva di alcuna autonomia sembra non lo sapessero solo a Venezia, ma anche all'estero. Quando arrivano i messi crociati per chiedere di costruire nell'arsenale di Venezia la flotta per la spedizione in Terrasanta - narra sempre il biografo - sono ricevuti dal doge, ma non ritengono di dover esporre a lui il motivo molto importante della loro visita, limitandosi a chiedergli di convocare al più presto una riunione del Minor Consiglio. Ma la storia forse non ama, neanche lei, essere presa in giro e si vendica, mettendo proprio un doge poco adatto nella condizione di dover prendere decisioni di importanza vitale per Venezia, come quella ad esempio di rovesciare un impero come quello bizantino che magari di lì a qualche secolo avrebbe avuto tutto l'interesse ad aiutare Venezia a mettere argine alla straripante espansione ottomana. La città lagunare dovette invece farvi fronte quasi da sola, combattendo contro i turchi ben sette guerre, che non riuscirono tuttavia a metter freno al loro crescente predominio sul Mediterraneo.
Concludo il mio ragionamento. L’avidità non può essere una dote per un mercante, altrimenti non riuscirebbe nemmeno a fissare giusti prezzi alle sue merci e quindi a far bene il suo lavoro. Può benissimo essere stato invece un vizio inconfessabile per molti capi crociati, interessati più al santo bottino che al Santo Sepolcro. Se ci aggiungiamo che ben due terzi di quelli attesi per la partenza da Venezia non si erano fatti vedere e che un’altra parte aveva abbandonato la compagnia a Zara, possiamo anche immaginare che il morale dei crociati non fosse alle stelle e che magari molti dei loro capi non si sentissero poi così forti da affrontare gli infedeli a casa loro. Forse il bottino fatto a Zara aveva fatto loro balenare l’idea che era preferibile dirottare la crociata verso un obiettivo più facile e redditizio, riuscendo a convincere di ciò anche il vecchio doge e i suoi consiglieri, allettandoli con la promessa di un grande bottino e un impero da spartire. Magari il sacco di Zara era sembrato loro solo un antipasto, cui far seguire altre, più abbondanti pietanze. Il principe Alessio, con cui Bonifacio aveva preso contatti ben prima dei Veneziani, avrebbe rappresentato solo una specie di cavallo di Troia per entrare a Costantinopoli.
E i veneziani? Cosa dire del doge quasi centenario, che dopo una vita da mediano (tanto per usare una metafora canora e sportiva insieme) intravvedeva - quasi alla fine della sua esistenza - la possibilità di giocare una partita da centravanti e di segnare il gol che l’avrebbe magari fatto passare alla storia... In fin dei conti ha anche avuto ragione. E’ morto un anno dopo in Bulgaria, durante una ritirata non molto gloriosa, a dire il vero, ma qualcuno lo ricorda come un grande doge se non addirittura come un eroe. Io no.
Adesso, dopo aver finito, quasi mi pento di aver scritto cose che magari sono solo parto della mia fantasia. Come scusante potrò comunque sempre dire che è tutta colpa della mia... età avanzata! Di una cosa comunque sono certo: Venezia, per diventare grande come già era e come ancor di più lo sarebbe stata nei secoli successivi, non avrebbe certo avuto bisogno di dogi attempati e megalomani e di avidissimi crociati. Le sarebbero bastate le sue galee impareggiabili, i suoi intraprendenti mercanti, i suoi esperti e coraggiosi marinai e i suoi governanti sagaci e lungimiranti. Magari ci sarebbe arrivata un po' dopo, ma ci sarebbe arrivata lo stesso.